LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE TI MUOVI"

creata il 13 maggio 2012 aggiornata il 15 maggio 2012

 

 

Forse vieni dalla pagina su Che cos’è la variabilità?” o da altre pagine dove si mette a tema la nozione di variabilità come costituente fondamentale del discorso scientifico.

Nel 1882 Nietzsche anticipò i teoremi di ricorrenza di Poincaré (1891), secondo i quali prima o poi (molto, ma molto poi) ogni sistema meccanico (tipicamente il sistema planetario) torna vicino quanto si vuole al punto da cui la propria evoluzione ha preso le mosse. Non sapremo mai come Nietzsche, che non era meccanicista, sia arrivato a concepire l’eterno ritorno dell’uguale (cfr. Gaia scienza, Libro quarto, 1882, af. 341), mentre sappiamo bene come arrivò Poincaré alla sua teoria del caos o dell’instabilità. La storia è raccontata in modo rigoroso ma senza matematica da Sean Carroll nel suo Dall’eternità a qui (trad. F. Ligabue, Adelphi, Milano 2011, pp. 220-224). Qui provo a fare un discorso a monte (come si diceva nel 68) della nozione di ricorrenza o ripetizione; tento un discorso preliminare sulla variabilità, giusto prendendo spunto da un filosofo inattuale come Nietzsche.

Nietzsche, in questo essenzialmente classico, confondeva scienza e misura; nella Terza inattuale (1874) formulava una proporzione: la scienza (che misura) sta alla sapienza (che non misura) come la virtù sta alla santità. Evidentemente, Nietzsche, che nasceva scientificamente come filologo, si riferiva alla scienza “dura” del proprio tempo, che era un macigno positivista; allora, era giustificato a parlare di “scienza” come pregiudizio (cfr. Gaia scienza, Libro Quinto, 1887, af. 373). A parte la ragionevole giustificazione storica, la fallacia nietzscheana resta una fallacia; la quale sembra dovuta a una condizione culturale molto generale, diffusa nel tempo e nello spazio, ben precedente l’epoca positivista e risalente perfino all’umanesimo “umanista” rinascimentale. (Da tenere ben distinto dal meno noto umanesimo matematico che, ai fini dello sviluppo scientifico, fu ben più rilevante dell’umanesimo “umanista”, immortalato dal grande Burckhardt, collega di Nietzsche a Basilea). Intendo la mancata acquisizione, tipica dei classici e comune agli umanisti “umanisti” fino ai nostri giorni, della nozione di variabilità, e della conseguente nozione di equazione, intesa come uguaglianza tra i valori di due termini variabili, collocati a destra e a sinistra del segno di uguaglianza.

Parlando in termini nietzscheani, il pensiero classico è apollineo, cioè “statico”; resta fissato alla buona forma ideale; manca della nozione “dinamica” (precisamente “cinematica”) di funzione, intesa come passaggio dal valore di una variabile al valore di un’altra. Aristotele la chiamava “trasformazione” o metabolé, contrapposta al movimento meccanico o kinesis. L’oscura intuizione di variabilità fu dai classici relegata al pensiero femminile o dionisiaco; secondo Nietzsche era un pensiero tragico e temibile, perché dissolveva le buone forme “classiche” nell’orgia collettiva e nell’estasi individuale. I moderni umanisti hanno ereditato questo criticabile assetto mentale, diviso tra Apollo e Dioniso, senza per altro dimostrare di saperlo attraversare.

Eppure, Nietzsche intuì il poco classico (ma pitagorico) eterno ritorno dell’uguale. Come fece? Come ho già detto, non lo sappiamo. Forse non lo sapremo mai. Dobbiamo congetturare. Fu perché il pensiero di Nietzsche, congenitamente non accademico, fu originariamente femminile? Come il pensiero del suo predecessore Kierkegaard? Chissà. La mia congettura è più terra terra; Nietzsche sicuramente ebbe un’oscura, non matematica, ma altrettanto sicura, intuizione di variabilità. L’eterno ritorno dell’uguale esprime in forma mitologica e diacronica il teorema fondamentale dell’algebra, che formula lo stesso concetto in forma sincronica: tutte le equazioni di grado n hanno n soluzioni complesse. Mi spiego per l’umanista che sta per voltar pagina.

L’insieme delle radici di un’equazione forma un gruppo di permutazioni, detto anche gruppo di simmetria, il cui studio avviò l’algebra astratta. La teoria de gruppi di simmetria fu merito di Evariste Galois (1811-1832), che generalizzò l’algebra concreta dell’estrazione effettiva delle radici di un'equazione, inaugurata dagli algebristi arabi (al-Khuwarizmi) e sviluppata dagli algebristi italiani (Scipione dal Ferro e successori), all’algebra astratta delle simmetrie, che tanta parte avrebbe dovuto avere fuori dalla matematica pura, per esempio in meccanica quantistica. (Dalla leva di Archimede in poi, la nozione di simmetria è essenziale in meccanica). A partire dall’assunto che la permutazione delle radici di un’equazione generalizza a livello sincronico il tempo diacronico dell’eterno ritorno, qualche umanista di buona volontà potrebbe riscrivere il bel libro di Mircea Eliade Il mito dell’eterno ritorno (1952).L’umanista non ha la nozione di variabilità; avendo un imprinting mentale di tipo ontologico, si arresta al molteplice e al polimorfo, eventualmente riconducibile all’uno; infatti, per il Kant della Prima critica (1781-1787) conoscere è ridurre il molteplice dell’empiria all’unità di ragione. Per i classici e per i loro epigoni alla base della molteplicità c’è un’unica forma che non varia e la fonda: l’essenza o la sostanza, che si presenta in modi solo apparentemente (fenomenologicamente) diversi. Ma la forma (o l’essenza o la sostanza) è unica ed essenzialmente non variabile, per definizione. Non si può fare scienza dell’essere, se questo “varia”, cioè non “sta fermo”, diceva Aristotele. E di fatto sia i classici sia gli umanisti non hanno fatto e non fanno scienza, perché la loro ontologia “fuorclude” il movimento (Zenone). I primi non sapevano e i secondi non sanno letteralmente come muoversi in ambito scientifico.

La scienza inizia in pratica accettando la variabilità dei fenomeni; comincia in teoria pensando la variabilità delle soluzioni delle equazioni; prosegue la feconda interazione tra teoria e pratica calcolando le tangenti alle traiettorie di punti mobili (Galilei, Cartesio, Fermat). E andrebbe precisato che il calcolo è un’operazione che non si riduce alla misura – arte in cui gli antichi Greci eccellevano –, ma la generalizza – arte, quella della generalizzazione, di cui gli antichi Greci erano completamente sprovveduti. Se la generalizzazione fosse un’arte musicale, i Greci furono musicalmente sordi.

(Non meno di Freud! A proposito di Freud, apro una parentesi. Il calcolo delle tangenti dovrebbe interessare l’analista, perché è una tipica manipolazione dell’ignoranza che anticipa il sapere. Infatti, con una previsione lineare la tangente anticipa il moto di un mobile che non si sa dove andrà a finire: si fa la previsione come se il mobile dovesse proseguire … per la tangente. Ovviamente la previsione è approssimata e valida per intervalli molto piccoli (una volta si diceva infinitesimi). Chiusa parentesi).

Insomma, sottostante alla nozione di variabilità c’è la nozione ostica per l’umanista “umanistico” di NUMERO e di CALCOLO; pensiamo al disprezzo con cui il fenomenologo Heidegger parla di “scienza calcolante”, intendendo “meccanica”; il calcolo tuttavia non è da disprezzare; ricordo che esso comincia con le manipolazioni algebriche di Viète e Cartesio. Euclide sapeva costruire (il primo teorema dei suoi Elementi è la costruzione del triangolo equilatero su una data base), ma non sapeva manipolare i valori di una variabile. Perché? Perché non sapeva operare con l’ignoranza. La manipolazione algebrica è, infatti, una performance che interviene sull’ignoranza. Ai tempi del nostro liceo abbiamo imparato che in algebra i valori della variabile sono essenzialmente ignoti. Diventano noti solo alla fine della manipolazione algebrica, quando il valore della variabile diventa miracolosamente uguale a una certa combinazione di costanti note.

Il numero e il calcolo (in una parola, l’algebra) sono essenziali per la nascita e lo sviluppo della scienza moderna.

Gli antichi non conoscevano e gli umanisti “umanisti” non conoscono il numero, che confondono con cifra. Si sono arrestati e si arrestano al numero uno, arrivando tutt’al più a concepire i numeri interi (a loro tempo i Pitagorici).

Gli antichi non conoscevano e gli umanisti non conoscono il calcolo. Si sono arrestati e si arrestano alla geometria delle forme ideali, mentre la matematica moderna è diventata la geometria (algebrica dopo Cartesio, ovviamente) degli spazi (plurale!).

A questo punto il discorso potrebbe interessare l’analista freudiano, nella misura in cui l’inconscio freudiano convoca un calcolo su qualcosa che non si sa dove e come andrà a finire, come la traiettoria di un punto mobile, che io osservo qui e ora, ma non so dove andrà tra poco e un po’ più in là. L’inconscio freudiano, prima di essere organizzato come un linguaggio, è un sapere che non si sa di sapere. In questa ignoranza si colloca tutta la sua variabilità. A proposito della quale l’umanista arriva al massimo a riconoscere che l’inconscio è organizzato come un linguaggio, riconoscendo la variabilità dei linguaggi esistenti. Certo l’inconscio tedesco, che produce l’Es, non è uguale all’inconscio francese che produce il Ça. Ma questa non è ancora la variabilità di cui abbiamo bisogno per costruire una psicanalisi scientifica. Anzi, abbandonare un certo logocentrismo implicito nella dottrina lacaniana è la precondizione necessaria per pensare la variabilità in psicanalisi.

Ma cosa si può dire in positivo?

Sinceramente non lo so. Non mi resta che lavorare con e attraverso questa ignoranza, che ho ereditato dall’umanesimo “umanista”.

Seguono altre pagine. In questo sito si torna a parlare di variabilità in diverse pagine, per esempio in Per l'epistemologia della variabilità, A proposito di probabilità o Scienze dell'ignoranza. L'autore è dell'opinione che la nozione di variabilità, e le connesse nozioni di equazione e di funzione, siano necessarie al discorso scientifico. Finché la psicanalisi non importerà nella propria teoria una qualche forma di variabilità (non necessariamente quantitativa) non acquisirà uno statuto scientifico.

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